"Chiedilo a Marilyn quanto l'apparenza inganna e quanto ci si può sentire soli...

Ogni uomo deve onorare Amore ed io stesso onore le cose d’amore e le pratico al di sopra di tutto ed esorto gli altri a fare lo stesso, e ora sempre lodo la potenza e il valore d’Amore
(Platone, Il Simposio)

Lo cantano da sempre poeti e cantautori, zampilla irruento in ogni dove eppure non riusciamo sempre ad afferrarlo. È l’amore: quel leggiadro volteggiare disperso nell’aria, che insorge dall’ abisso ed irradia la vita di desiderio, colore e passione. Lo abbiamo perso, lo abbiamo richiuso nelle cantine del nostro cuore. Abbiamo taciuto gli antichi maestri ed inseguito la voce dei nuovi folli sperando di riaffiorare più potenti e vigorosi nel potere della ricchezza e delle armi.
Abbiamo fatto di tutto pur di non vivere d’amore. Lo abbiamo schernito e sputato sull’idea che riuscisse a toccare l ‘infinito. Con la menzogna siamo riusciti a volare più in alto, a raggiungere le stelle e a riempire vuoti ed attese nell’incombenza dell’apparenza, del pragmatismo e dell’efficienza. A cosa ci è servito?
Ad erigere forse esistenze poggiate su palafitte emotive più fragili. A disperdere la vita umana nel buio assoluto della notte.

…Ma chiedilo a Kurt Cobain
Come ci si sente a stare sopra un piedistallo e a non cadere
Chiedilo a Marilyn
Quanto l'apparenza inganna
E quanto ci si può sentire soli
E non provare più niente
E non avere più niente da dire…
(Brunori Sas, Kurt Cobain)




Inscatolati e marchiati come oggetti d’esposizione, Maryil e Cobain volteggiavano onnipotenti nell’illusione del tutto. Ma l’essere, dietro a quel tutto, si sgretola lentamente nel vuoto del niente. La storia di Marylin e di Cobain, cosi come quella di tanti altri giovani odierni ci inducono a riflettere sulla diffusione di nuove forme di disagio caratterizzate da forme variegate di insoddisfazione, solitudine e depressione. Esse smascherano le illusioni di una società che ci ha reso prodotti sempre più efficienti ma anime vuote e perdenti. 
Il mito del successo, dell’indipendenza e dell’autoaffermazione sono infatti le menzogne più pericolose dei nostri giorni. Il nostro è un tempo che nega l’amore ed enfatizza il principio della libertà e dell’auto generazione suggerendo che ciò che più conta nella vita è la capacità dell’uno di accaparrarsi da solo quote sempre più elevate di felicità e di godimento. Le emozioni, l’altro e l’amore non sono più vissute come ricerca di sé stessi, slancio vitale e dinamismo, ma al contrario come ciò che più terrorizza ed ostacola l’essere dal raggiungimento delle sue mete fittizie. Estirpato dalla sua linfa vitale Eros ed Eteros divengono dunque i principali nemici da sopprimere ed esiliare. 
Come psicologi non possiamo ignorare questo abito culturale che l’uomo odierno tende più o meno consapevolmente ad indossare. La menzogna sociale del “Farsi da sé” la ritroviamo per esempio sovente nella tipica espressione del tossico che desidera “farsi” senza passare dal legame con l’altro o nelle più recenti sex addiction ove “l’atto masturbatorio del farsi da sé” evoca spesso il tentativo più estremo e disperato dell’essere umano di sentirsi e toccarsi nel profondo evacuando dal pericolo mortifero avvistato nella turbolenza dell’emozioni e delle relazioni. Questo è per esempio quello che accadde nella storia di D.
Il corpo pietrificato e scultoreo che si presentò per la prima volta al mio sguardo chiedeva tacitamente di essere guardato e ammirato. Non sapevo ancora chi fosse, né la natura delle sue ferite e forse neanche i suoi stessi occhi conoscevano davvero la vera natura del suo essere. D. era un ragazzo affascinante e molto curato nell’aspetto. Gli occhi spenti e il corpo teso ed immobile lasciavano presagire la presenza di una qualche emozione congelata e l’ombra della tristezza e dell’insoddisfazione. Il ragazzo appena laureato e pronto per “essere” un prestigioso medico come il padre, voleva avere successo nella vita, sognava la fama e il potere perché aveva imparato che quella era per lui la felicità, quella l’unica strada percorribile per amarsi e farsi amare riscattandosi da un passato di insuccesso scolastico e da un ancor più remoto senso di colpa e bassa autostima causata dalla separazione dei suoi genitori quando ancor bambino era incapace di rispondere e colmare vuoti ed improvvise mancanze . Stesso successo D. lo perseguiva con le ragazze essendo abilissimo nel sedurle ma meno nel legarle in una relazione monogama e stabile. Ciò nonostante D. , che ad un primo sguardo sembrava avere tutto, si sentiva vuoto e insoddisfatto. Apparentemente sicuro di sé il ragazzo sapeva bene cosa volere ma meno cosa essere. La sua vita, priva di colori e relazioni, scorreva nella realizzazione di obiettivi con cui si identificava dimenticando e confondendo sè stesso con un esistere paterno e collettivo. L’urgenza incontrollata e compulsiva di masturbarsi lo aiutavano a colmare quel suo vuoto nell’essere e a difendersi dalle onde turbolenti dell’emozioni illudendosi di poter erigere un muro invalicabile tra l’io e il mondo esterno.
La storia di D. sembra dunque incarnare una mentalità molto diffusa nei nostri giorni. Egli non sospettava minimamente che la sua felicità potesse coincidere proprio con quel sé stesso che avrebbe dovuto prima scoprire e poi cercare di fare emergere. Al contrario D. ignorava sé stesso e lo conservava al riparo dal mondo senza avere nessuna intenzione di condividere la sua essenza con la vita e con le donne che incontrava.

<<Orsù mio caro>> dice ad Alcibiade
<<dà retta a me e all’iscrizione di Delfi, conosci te stesso>>

Come ci ricorda Socrate, esiste un solo modo per liberarsi dall’infelicità. Alcibiade come D. doveva imparare a conoscere sé stesso prima di riuscire a prendersi cura di sé e ad agire proficuamente nella sua “polis”. Solo esplorandosi in fondo l’uomo può nutrire il suo Io salvandolo da una conseguente frustrazione e vuoto esistenziale. Solo risvegliando il suo Eros e la sua creatività l’uomo può riscopre il senso più autentico della sua vita. 
Il percorso di conoscenza di sé, non è certamente cosa facile ed immediata, né soprattutto esperienza solitaria. Per conoscere noi stessi non basta guardarsi “da fuori” come se fossimo al contempo oggetti e soggetti separati della nostra ricerca come vanamente ha tentato di fare per lungo tempo la scienza illudendosi di svelare l’essenza delle cose senza farsi penetrare da esse. 

“Non hai notato che il volto di chi guarda nell’occhio appare riflesso, come in uno specchio nella parte dell’occhio di chi si trova difronte, che chiamiamo anche pupilla?
Se un occhio vuole vedere sé stesso deve guardare in un altro occhio e non in qualsiasi parte di esso bensi per forza di cose nella sua parte più riflettente, cioè la sua pupilla.
In tal modo accadrà che nello stesso istante e nello stesso luogo anche il secondo occhio vedrà riflesso sé stesso nella pupilla del primo”.
(Petro Del Soldà, Non solo cose d’amore)

Solo se due occhi sono aperti e puntati l’uno nella pupilla dell’altro possono davvero vedere sé stessi. L’uomo non riuscirà mai a conoscere realmente il suo essere standosene chiuso nelle sue mura e agendo in solitaria. Nella stanza terapeutica il paziente incontra innanzitutto una persona e due “pupille” nelle quali potersi rispecchiare reciprocamente. Il percorso terapeutico è infatti un viaggio condiviso nella quale l’esperto accompagna il viandante verso il suo sentiero ma non si pone mai nei suoi confronti con un atteggiamento di distacco e di superiorità. Nessuno dei due occhi che si incontra può essere superiore all’altro. Per vedersi essi devono essere allineati alla pari e ricevere innanzitutto Amore poiché, come ci insegna Dostoevskij in “Delitto e castigo”, l’amore è la forza motrice più potente per incalzare l’uomo al dinamismo e al cambiamento. Eros inoltre è all’origine di ogni tensione umana verso la felicità e nella sua autentica produttività, è l’unica cosa che rende l’umano un essere davvero infinito.
Anche noi psicologi, in primis come persone poi come professionisti, siamo chiamati ad “onorare” Amore e ad uscire dal nostro guscio solipsistico per guardare l’altro in modo meno competitivo, egoistico e strumentale. Ciò significa per esempio imparare a cooperare e ad essere solidali fra colleghi, promuovendo il dialogo ed evitando la maldicenza che genera soltanto stagnazione, conflitto e malessere e non crescita e produzione efficace. A tal proposito Bion per esempio distingueva fra il concetto di “gruppo di lavoro” e quello di “base” intendendo sottolineare con il primo una forma di pensiero e di azione gruppale “sana” e non nevrotica. Essa consisteva esattamente nella capacità di porsi in rapporto empatico con gli altri favorendo l’insorgenza dell’“atteggiamento negoziale”, ovvero di un’operazione di scambio paziente, continuo, emotivamente faticoso, finalizzato a trovare punti di contatto tra tutti e a risolvere il compito assegnato nel modo più adeguato e performante. 
Uscire dal proprio guscio per guardare l’altro significa inoltre non guardare la persona che bussa alla propria stanza come un malato o come un semplice oggetto di guadagno. Come persone e non mercenari, dobbiamo renderci disponibili all’incontro con sé stessi e con gli altri, dare amore e incoraggiamento senza chiuderci in modo onnipotente fra le mura della nostra torre di Babele.
Solo uscendo da sé stessi e procedendo verso un altro che lo riflette, l’uomo potrà dunque scovare il suo orizzonte di senso e trovare il suo autentico posto nel mondo. 
Solo allora la bellezza, il successo, la ricchezza, e gli altri beni materiali potranno manifestarsi senza distoglierlo dall’unica strada lungo la quale è lecito e convenevole davvero avanzare: l’amore.

Canzoni che parlano d'amore
Perché alla fine, dai, di che altro vuoi parlare?
Che se ti guardi intorno non c'è niente da cantare
Solamente un grande vuoto che a guardarlo ti fa male
Perciò sarò superficiale
Ma in mezzo a questo dolore
E in tutto questo rumore
Io canto un mondo che non c'è.
..Perchè a volte basta una stupida canzone a ricordarti chi sei..
(Brunori Sas, Canzone contro la paura)

Commenti

Post più popolari