Incontri ed assetti: l’imprevedibilità di una traiettoria

Capita a tutti, prima o poi, di imbattersi in una persona che irrompe nella propria traiettoria mutandone l’assetto.
Cos’è un assetto se non un abito che abbiamo imparato ad indossare nel quotidiano? Un vestito troppo  stretto  se non ricucito con processi di assimilazione e di accodamento. Una maschera cristallizzata che placa ansie ed angosce remote. Un’ isola conosciuta che elude il disordine mantenendoci a galla. Un salvagente forato che non attraversa maree e non intravede orizzonti.
Un amico, un familiare, un amante, un viandante, un “esperto”. Nella marea della vita ci sarà sempre un nuovo qualcuno verso cui tendere. Parole, silenzi, schiaffi o carezze irromperanno inaspettate nelle radici delle nostre essenze scardinando quell’assetto. Percorreremo traiettorie imprevedibili e i nuovi fili intrecciati ci chiederanno di scardinare abitudini e certezze e di renderci cangianti. Proprio allora ci costerà cara la fatica di divenire permeabili e di apprendere dal dinamismo delle onde che, coraggiose e vitali, si rigenerano continuamente dopo essersi dissolte sugli scogli.
Anche alla fine di tutto, anche quando ogni cosa ci appare finita e sconclusionata e ci convinciamo che: “no, non è proprio il momento”, ci sarà sempre una buona ragione per incontrare qualcun altro. Quel qualcuno potrà toccarci o sfiorarci in modi diversi: illuminarci, piegarci o forse anche risolverci. In ogni caso avrà contribuito ad impastare l’abito e la stoffa che abbiamo sfoggiato in precedenza. Delle volte le nuove vesti, ancora troppo larghe o troppo strette, appariranno come stoffe poco comode e funzionali. Ci sembrerà di inciampare smarriti lungo sentieri poco esplorati ma filo dopo filo, dopo errori compiuti e fallimenti collezionati, impareremo con fiducia, pazienza e perseveranza a cucire l’abito della giusta misura presentandoci al mondo come corpi più fruibili e meno friabili.
Comunque vadano gli incontri, quelli veri, compiremo uno sforzo vitale: usciremo dalle fortezze del proprio io e ci concederemo ad altre impreviste e forse salvifiche opportunità. Riscopriremo nell’altro quel qualcosa che non pensavamo ancora possibile trovare: quel qualcosa che non si è mai posseduto o non si pensava ancora di possedere. Traghetteremo verso nuovi significati e possibilità di essere nel mondo. Restituiremo alla nostra immagine quel che uno specchio non riuscirà mai a riflettere davvero.

 L’altro: uno sguardo, un riflesso.

“Non hai notato che il volto di chi guarda nell’occhio appare riflesso, come in uno specchio nella parte dell’occhio di chi si trova difronte, che chiamiamo anche pupilla? Se un occhio vuole vedere sé stesso deve guardare in un altro occhio e non in qualsiasi parte di esso bensì per forza di cose nella sua parte più riflettente, cioè la sua pupilla. In tal modo accadrà che nello stesso istante e nello stesso luogo anche il secondo occhio vedrà riflesso sé stesso nella pupilla del primo”. (Petro Del Soldà, Non solo cose d’amore)

Conoscevamo la natura di questo potere riflettente sin dai primi vagiti eppure continuiamo troppo spesso a ricercarlo nei vetri delle nostre dimore salvaguardandoci dallo stereotipo della minaccia in cui rinchiudiamo l’ombra dell’Altro.





 Venuti al mondo, quando il seno era ancora attaccato alla bocca, le nostre pupille incontravano per la prima volta quelle materne. Non sapevamo, almeno inizialmente, che quelle che guardavamo erano occhi materni, ma vi individuavamo nel tipo di rimando l’intenzionalità dei suoi sentimenti: uno sguardo che poteva avvolgerci, abbracciarci e sostenerci, o diversamente uno sguardo impersonale, spento, meccanico, intrusivo e discontinuo. Uno sguardo affamato di ricompense e aspettative, uno sguardo cieco che pietrificava e non riconosceva. 
 Da quegli istanti in avanti, faremo sempre i conti con la diversa tipologia dei primi sguardi ricevuti. Da essi dipenderà il modo con cui ci guarderemo o penseremo di essere guardati, ameremo e verremo amati. Il modo con cui apriremo la porta delle nostre dimore e come edificheremo “assetti” più o meno permeabili favorendo od ostacolando quella naturale predisposizione umana che, se adeguatamente coltivata, tende al contrario all’altro, alla vita, allo scambio e al legame.
Tuttavia, anche quando è il nostro “assetto primario” a spingerci verso la ricerca di un rifugio sicuro ed isolato, sarà sempre nostro dovere spingerci verso nuove strade e nuovi modi possibili. Come gattini impauriti che osservano dalla cima di un albero la vita ed il mondo che scorre, dovremmo allora ricercare con fatica, sacrificio e grande coraggio rami più forti su cui poggiarci e imparare a scendere da quell’altura a piccoli passi per abbracciare dal basso anche ciò che ci minaccia. 
Mai dovremmo smarrire il desiderio di vivere e amare fino in fondo, mai di occuparci della nostra vita e di salvaguardarla. Anche nelle situazioni più aspre e tortuose non potremo sempre guardare indietro e permettere agli antichi impedimenti di legarci le mani sostando passivi sull’altura di un arbusto al riparo dal mondo. Quel che accade nel giro della vita getta sempre dei semi nel terreno di ciascuno di noi e da quei semi, con il tempo, qualcosa comincia a risalire attraverso la terra che non sapevamo fosse fertile. Ma spetta soprattutto a noi l’arduo compito di risanarla perché oltre ad essere un diritto, la vita è anche e soprattutto un dovere. Come tale, tutti dovremmo sforzarci di non abbandonarci all’esistere ma camminare e andare in avanti compiendo anche lo sforzo di “rompere quegli specchi e guardare fuori dalla propria piccola gabbia…” (Grandi, Se questo è un altro, 2019). Ci sarà sempre un nuovo momento particolare, una nuova relazione che si riaccende o si riannoda, facendoci risalire di nuovo sul gradino più alto delle emozioni. Proprio allora dovremmo avere il coraggio di smascherare le nostre finzioni, riformulare gli assetti e rimettere in moto quello strano e insopprimibile stimolo che ci spinge a cercare, ancora una volta, in un’altra persona, il nutrimento di cui in realtà abbiamo disperatamente bisogno riconsegnandoci alla nostra ancestrale umanità e alla nostra originaria mancanza. L’incontro con l’altro infatti, ci conduce anche verso la nostra relatività, a riconoscere cioè i propri limiti, la propria insufficienza e il proprio bisogno di completamento grazie all’Altro.

Sguardo alla luna
Dimmi Luna che sapore ha un riflesso,
lo cerco ancora guardandoti perplesso.
Nelle acque in cui ti specchi
non hai trovato quelle dei tuoi vecchi!
Le immagini frantumate
sono ferme a quell’estate!
Fra vino rosso e qualche amaro
non avevo ancora chiaro:
occhi color prato
mi avrebbero ammaliato!
O mia cara finzione
Impara la lezione:
Suole sciogliersi ad uno sguardo
anche l’animo bugiardo!

Potremmo anche aver sperimentato l’assenza di uno sguardo o di un incontro autentico primordiale e chiedere in solitaria al riflesso della luna di parlarci di noi e delle mille immagini disperse e frantumate, ma se faremo esperienza di due occhi sinceri che ci riflettono e di una mammella calda che ci nutre, qualcosa dentro di noi potrebbe nuovamente risuonare e attecchire. Attraversati da malinconie indefinibili, potrebbero allora riemergere nuovi slanci, desideri e aperture improvvise che non credevamo più possibile ritrovare. Ciò richiede tuttavia sforzo, fatica e grande coraggio…

Commenti

Post più popolari