La verità è che non vuoi cambiare...

“Elsi sarebbe cresciuta con un trauma durissimo: la sua bambola l’aveva abbandonata. Se l’avesse delusa forse avrebbe provocato nell’anima di Elsi la frustrazione del rifiuto”
(Jordi Sierra, Kafka e la bambola viaggiatrice)

Nel gergo comune il termine abbandono rimanda alle più comuni esperienze umane legate al lutto e alla perdita. Con esso infatti pensiamo sovente alla morte di una persona cara o alla fine di una relazione sentimentale e al conseguente sentimento di vuoto, angoscia e solitudine che lo accompagna. Tuttavia il termine abbandono, non deve essere inteso nella sola accezione di perdita di una persona cara ma pensato in modo più eterogeneo e generale per qualsiasi forma di perdita d’“oggetto” (inteso come luogo, oggetto, soggetto) investito emotivamente in modo del tutto peculiare da individuo a individuo. Basti pensare allo sconforto e al non senso sperimentato dal bambino quando perde la propria bambola preferita o allo smarrimento esperito dal viandante che costretto ad abbandonare affetti e terra madre, si ritrova ad albergare nell’ignoto e nel non familiare perdendo un pezzo di sé e della propria vita passata.
In qualsiasi forma si declini, l’esperienza dell’abbandono priva dunque l’essere umano di un qualcosa di intimo e di soggettivo che lo apparteneva e lo definiva fino a quel momento nella sua storia personale. Ciò spiega il motivo per cui vuoto, angoscia e frammentazione paradossalmente possono accompagnare anche alcune delle nostre esperienze positive come per esempio quella di un successo scolastico o professionale. Nelle cosiddette depressioni post lauream per esempio, il raggiungimento di un obiettivo o di un traguardo talvolta potrebbero indurre a vissuti di lutto e di paralisi dovuti alla sensazione di aver abbandonato un frammento della propria vita passata in cui l’individuo si riconosceva e si identificava come studente. In casi come questi, quando la paura di crescere e di separarsi da ciò che ci apparteneva e ci definiva è paralizzante e insopportabile si assiste, proprio come accade nelle relazioni sentimentali disfunzionali, a svariati tentativi volti a rimanere aggrappati alle proprie ancore emotive. Come il dipendente emotivo farà di tutto per aggrapparsi e non perdere il proprio partner anche quando dovrebbe per paura di naufragare nel vuoto o a causa della sua incapacità di rielaborare e riorganizzare il proprio mondo interno, allo stesso modo lo studente terrorizzato dalla paura e dalla fatica insita nella separazione e nella crescita cercherà di stazionarsi il più possibile nel suo vecchio status con diverse strategie: arrivando per esempio all’ultimo esame senza mai discutere la tesi o ancora prendendosi quattro lauree consecutive posticipando in tal modo la transizione e la maturazione emotiva. In tal senso è evidente come l’esperienza della perdita e dell’abbandono rimandi in qualche modo alla paura di crescere: proprio come l’abbandono la crescita implica continue separazioni di parti di sé e continue ristrutturazione del proprio mondo interno.

La verità
È che ti fa paura
L'idea di scomparire
L'idea che tutto quello a cui ti aggrappi
Prima o poi dovrà morire
La verità
È che non vuoi cambiare
Che non sai rinunciare a quelle quattro, cinque cose
A cui non credi neanche più
Brunori Sas, La verità




Le parole di Brunori Sas ci permettono di ragionare su un'altra forma di abbondono insita nell’esperienza umana. La melodia urla il vuoto e il tedio esperito da chi è costretto ad abbandonare o si sente abbandonato dal proprio Io nel momento in cui desideri, aspettative e obiettivi personali vengono uccisi e soffocati da condizioni esterne sovrastrutturali che ne ammazzano la sua essenza e individualità costringendolo ad una vita non voluta e desiderata. Proprio allora il sé si distrugge e con esso ogni cosa, persino il cioccolato dirà il cantautore nel testo, perderà gusto, sapore e significato. Il pezzo è dunque una narrazione collettiva ben riuscita che dà voce ai pensieri e ai sentimenti di quella generazione di giovani” che vive sospesa tra sogni auspicati e risposte mai arrivate ma è anche un messaggio motivazionale ed un incoraggiamento volto a crescere, a mettersi in gioco in prima persona con tutte le difficoltà e le responsabilità che ne conseguono. L’artista invita infatti l’io abbandonato, sofferto e distrutto a farsi coraggio, a separarsi e a “rinunciare a quelle quattro cinque cose” a cui lui stesso non crede neanche più confermandoci ancora una volta il nesso che lega l’esperienza dell’abbandono dal proprio io e quella della crescita. Non tutti però sono dotati di una dose sufficiente di resilienza e di maturità emotiva per affrontarla. Quando infatti la sensazione di aver subito un “furto identitario” è troppo forte e non si è provvisti di quegli strumenti emotivi adeguati per fronteggiarlo, il buco che ne deriva potrebbe prevalere sulla possibilità, di emozionarsi, di sentirsi e di appassionarsi. Privato in tal modo della sua umanità, è più facile è che l’individuo non ricerchi più alcun altro senso, se non quello di mollare e di sparire.


Il nesso esistente fra abbandono e buco identitario irrompe con maggiore evidenza quando si discorre sul tema delle adozioni. Rispetto al passato, oggigiorno si riserva maggiore attenzione e cautela ai bisogni dei bambini adottati. Fra questi è considerato prioritario l’esigenza di supportare i minori da subito nella ricostruzione delle loro vere radici familiari per evitare che il peso di quel buco narrativo si trasformi in un vuoto identitario e in una ricerca ossessiva e sofferta di senso, proprio come accade a Giada.

“Perché non capisci?... C’è un buco. Questa cosa mi fa impazzire. E io a guardarti stupita.
Perché ti fa impazzire un piccolo buco?”
(Marzano, L’amore che mi resta)”

Giada, personaggio del romanzo di Michela Marzano muore suicida a 25 anni. Non basta l’amore di Daria, sua mamma adottiva, per salvarla dal dolore provocato da quel buco identitario. Giada ricerca disperatamente il senso della sua storia e del suo abbandono da quando piccolissima ha la sensazione di impazzire innanzi ad un pezzo di puzzle che le manca. Forse, se la mamma le avesse detto la verità, ci sarebbe stata una ricerca meno ossessiva e drammatica della verità che le era stata velata.

“Quando si nominano male le cose, non si fa altro che aumentare la quantità di disordine e di sofferenza che ce nel mondo”
(Albert Camus)

Il romanzo di Michela Marzano va però oltre il tema dell’adozione regalandoci riflessioni psicologiche interessanti anche su chi come Daria, madre di Giada, cerca di sopravvivere alla perdita e al vuoto lasciatole impresso da un dolore impronunciabile. La sua è una sofferenza indicibile non solo perché viene inizialmente spogliata di pensieri ed emozioni attraverso la denegazione dell’evento traumatico. Nessuna lingua del mondo, come noterà il marito di Daria nel corso del romanzo, prevede l’esistenza di una parola capace di nominare una condizione cosi innaturale come quella di un padre e di una madre che perdono un figlio. Come fare allora per dire qualcosa per il quale non esiste nemmeno un termine? Come fare per recuperare ciò che il trauma della perdita e dell’abbandono smantella in chi resta? Daria recupererà pian piano ciò che le manca ripercorrendo con le parole, che inizialmente stenta a trovare, la storia di sua figlia abbandonata e con essa la propria storia di figlia deprivata. Comprenderà ciò che le rimane dopo quella mancanza attraverso una lunga un’analisi su sé stessa e sulla maternità: sulla madre che è stata e su quella avrebbe voluto essere: una madre perfetta.

“Ma quando sei venuta a prendermi era perché volevi una bambina o perché mi volevi bene?” (Marzano, L’amore che mi resta)

Ma Ciò di cui Giada avrebbe avuto realmente bisogno, non era una madre “perfetta” come credeva Daria, ma di una “sufficientemente buona”, capace cioè di riconoscimento e di sguardo autentico, capace di cogliere il suo desiderio di senso, verità e identità.

“abbiamo tutti perso qualcosa o qualcuno ancor prima di rendercene conto e di capire l’egoismo di una madre che vuole tenere i figli tutti per sé, pure se non sono per lei, e in quell’ essere per sé stessi c’è già il lutto dell’assenza”
(Marzano, l’amore che mi resta)

Un ultimo aspetto che mi preme sottolineare del romanzo è la modalità con la quale Daria recupera le parole indicibili della sua perdita. A nulla serviranno consigli e suggerimenti di amici e parenti che le dicono cosa dovrebbe o non dovrebbe fare per fuggire dal dolore. Daria recupera il verbo della mancanza attraverso l’incontro con Graziana, dal quale non riceve istruzioni ma uno spazio relazionale adeguato ove l’ascolto e il riconoscimento le consentono pian piano di non fuggire dal dolore ma di attraversarlo.
La frattura provocata da una perdita come quella di Daria è infatti una ferita che non si può cancellare. La sofferenza resta per sempre e ciò che può cambiare è solo il suo peso e il suo significato.
Se analizziamo il concetto di abbandono da un punto di vista più strettamente clinico, possiamo ritrovarne ampiamente traccia nel disturbo dipendente di personalità. Caratteristica saliente di questo quadro clinico è infatti la paura di essere abbandonati e il bisogno esasperato di accudimento da parte di una figura di riferimento. Tipicamente i soggetti che presentano questo disturbo si sentono incapaci di vivere da soli e non in grado di affrontare gli eventi della vita. Si sentono smarriti, vuoti e inutili senza la presenza di una persona al loro fianco. Per questo richiedono spesso rassicurazioni e conferme e tendono a vivere qualsiasi gesto di allontanamento, se pur minimo, come un possibile e doloroso abbandono. L’assenza o la perdita di una relazione significativa ed accudente fa percepire, alla persona dipendente, paura e ansia oltre che un senso di vuoto e inconsistenza della propria persona. Per evitare l’abbandono temuto, i soggetti dipendenti si adoperano per assicurarsi la presenza costante dell’altro in qualsiasi modo: diventando accondiscendenti, annullando i propri bisogni per quelli dell’altro o addirittura accettando qualsiasi forma di maltrattamento fisico o psichico. Non a caso la scelta del partner ti tali soggetti ricade spesso nel cosiddetto uomo sbagliato e inaffidabile, meglio ancora se narcisista. Altri aspetti peculiari delle loro relazioni sentimentali riguardano la presenza di controllo eccessivo, di follie ossessive e di eccessive scenate di gelosia agite spesso con l’intento di comunicare all’altro il malessere causato dall’assenza in modo manipolativo affiche l’altro non si separi.
Accanto a suddetta versione passiva la clinica evidenza anche l’esistenza di una versione contro dipendente del disturbo. In questo caso la paura di essere abbandonati che è altrettanto intensa come nella versione precedente porta l’individuo a desiderare un bisogno assoluto di autonomia e indipendenza per evitare il peso e la sofferenza che la rottura di un legame potrebbe comportare seguendo la logica del “se non mi lego non soffro”.
In qualsiasi modo la paura abbandonica si manifesti, nella sua forma passiva o in quella contro dipendente, è importante ricordare che nella storia dell’adulto dipendente è sempre possibile scorgere quella di un bambino che è stato trascurato emotivamente nell’ infanzia. Nella vita di tali soggetti si riscontrano infatti storie di genitori freddi, depressi o iperprotettivi incapaci di creare uno spazio emotivo e relazionale adeguato per trasmettere al bambino sicurezza, autostima e fiducia. Proprio a causa di questa mancanza il bambino si sentirà privo di riferimenti che cercherà in maniera esasperata o al contrario inibirà l’esplorazione del mondo e dell’intimità relazionale preferendo ad essa l’indipendenza e l’autonomia. Uno dei compiti della terapia con questi soggetti è proprio quella di aiutare l’adulto dipendente a riprendere consapevolezza della propria visione aiutandolo a “prendere per mano” quel bambino abbandonato che convive dentro di sé riscoprendo proprie risorse e potenzialità.
Anche se finora abbiamo parlato di adulti, non bisogna dimenticare che anche i bambini possono manifestare sintomi legati ad un disturbo dipendente di personalità che esprimono parimenti una forte ansia e paura abbandonica come per esempio accade nella storia di M., ragazzino che seguo in collaborazione con i servizi sociali.
M. è un adolescente di 14 anni anche se lineamenti, statura minuta e interessi giovanili appena pronunciati fanno di lui un bambino bisognoso, timoroso di sé stesso, della vita e degli altri più che un giovane ragazzino in erba. Dall’età di 9 anni M. inizia ad essere seguito dai servizi sociali a causa delle sue difficoltà a rimanere in classe. Il bambino ha livelli di ansia e di paura eccessivi, comincia a non volersi recare più scuola e, dopo poche ore, chiede di tornare a casa, suo ambiente sicuro, ove persegue pochi interessi e attività. M., a cui è stata diagnosticato una fobia scolastica, non tollera tutte quelle ore trascorse a scuola lontano dalla sua famiglia e teme fortemente che in sua assenza possa accadere loro qualcosa di brutto e subirne la mancanza. Ossessionato da tale preoccupazione M. controlla e anticipa tutti gli spostamenti e le attività dei genitori arrivando persino a chiuderli a chiave in casa. Persino Bibo, il cagnolino della famiglia, sembra aver introiettato la stessa ansia abbandonica e la stessa paura del mondo di M. Bibo infatti, parimenti al suo piccolo padrone si agita moltissimo quando M. esce di casa, lo spia e lo segue dal balcone fin quando non riesce più a scorgere la sua sagoma. Inoltre proprio come M. che tuttora stenta a relazionarsi con i coetanei, Bibo sembra essere un cagnolino particolarmente timoroso e diffidente nei confronti degli altri. Come abbiamo già visto pocanzi parlando del disturbo dipendente di personalità nell’adulto, anche nella storia di M. emerge la presenza un vissuto familiare caratterizzato da insicurezza e iper protezione che ha probabilmente favorito l’emergere di una fragilità emotiva e di una ricerca ossessiva di figure di riferimento. La stessa mamma di M. donna fragile, depressa e accondiscendente, continua a permanere in una condizione di dipendenza economica ed emotiva dalla propria madre da cui stenta a separarsi.
Oggi M. che dopo 5 anni di interventi psicoeducativi e terapie farmacologiche riesce meglio a tollerare la sua presenza in aula e la sua paura abbandonica si prepara pian piano ad affrontare l’ingresso alla scuola superiore dove dovrà affrontare nuove sfide e tanti altri abbandoni, come quelli insiti nella crescita e nell’acquisizione di un’identità adulta. Interessante sarà guidarlo in questo nuovo passaggio e scoprire assieme a lui quali altri diversi percorsi la direzione del suo vuoto e timore ancestrale potrà a non potrà intraprendere.

“Non appena la vita ci stacca dal mondo dell’infanzia si fa l’esperienza della solitudine.
<< Crescere vuol dire andarsene, invecchiare, veder morire>>
(Cesare Pavese)

Approfitto infine di questa citazione di Pavese per augurare amorevolmente ad M. e a quanti che come lui, me compresa, si accingono a sfiorare il vuoto e l’ansia del cambiamento, a fare questa esperienza di solitudine ricercando dentro di sé il coraggio di “andare” e di “abbandonare ”…

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