Nessuno si salva da solo: l'anoressia e il timore dell'altro


In “Nessuno si salva da solo”, film di Castellitto basato sull’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini, si narra la storia di un legame intrecciato, quello fra: Delia e Gaetano. Delia è una nutrizionista che si rovina l'animo e i denti rifiutando il nutrimento e vomitando tutto ciò che mangia. Gaetano è invece un aspirante sceneggiatore di umili origini che sogna il mondo del cinema. L'anoressia di lei e le frustrazioni di lui sembrano finalmente placarsi quando i due si incontrano. La scelta di Delia di privarsi del cibo, del piacere, riflette la sua idea sui legami e sull’amore. Delia è infatti una persona indifesa e difesa dal mondo. Chiude la bocca ma in realtà vorrebbe divorare tutto ciò che avverte come minaccia nel profondo. Vorrebbe proteggersi da affetti e da relazioni inaffidabili e ambivalenti. Nel corso della loro storia, il personaggio e il sintomo di Delia si trasformano raccontando qualcosa di nuovo di lei, di lui e della loro relazione. Quando Delia inizia ad affidarsi e ad innamorarsi di Gaetano, momento ben rappresentato nella scena in cui lui prova ad imboccarla con dei dei bignè, lui la aiuta a riaprire la bocca, la riapre con il cibo, con il suo nutrimento e con i suoi baci. Da quel momento in poi Delia ricomincia a mangiare, riscoprendo l’amore, la fiducia, il desiderio e la passione.

Quella che però sembrava una storia fondata sulla passione destinata a resistere al tempo, si trasforma ben presto in una relazione fatta di malumori e tradimenti di ripicche e rancori, che riporta Delia sulla via dell'anoressia e Gaetano ad allontanarsi sempre di più. Quando il loro amore incontra la crisi, Delia si richiude assieme al suo stomaco. La Delia che rivediamo nelle scene del ristorante è infatti un personaggio che è tornato a difendere nuovamente sé stessa dai legami e dal mondo circostante con le sue finzioni. Ma sul finire della storia sarà lui, che la conosce molto bene, a ritogliere quella maschera nonostante la minaccia della loro crisi coniugale già in atto.
Quello di Delia racchiude e semplifica una tipologia di dolore mai troppo semplice da narrare e codificare. È un male visibile ma impronunciabile come l’assenza delle sue parole, espresse solo attraverso incisioni inscritte su corpi invisibili e martoriati. Corpi che hanno chiuso con l’altro qualsiasi possibilità: quella di domandare un ascolto, quella di provare a domandare, di nuovo, qualcosa a qualcun altro e di ricevere una presenza autentica capace di offrirsi senza chiedere nulla in cambio. Il rifugio nel sintomo consente di fuggire dai pericoli, alle minacce, dai dolori che rendono intollerabile la vita in nome di un ideale e una meta fittizia che conduce al distacco e all’autonomia assoluta. Chi decide di non mangiare insegue infatti un chiaro ed ostinato progetto di vita che prende il posto di qualunque altro. Si illude cioè di non aver più bisogno di niente e di nessuno convincendosi di poter fare a meno della normale vita quotidiana, delle relazioni e dell’amore. Il sintomo si trasforma così in una cura, in una stampella indispensabile per soddisfare il bisogno di controllare la vita a la propria sofferenza riparandosi dal dolore che può causare l’incontro con l’altro: la possibilità di venir nuovamente traditi, di essere rifiutati, abbandonati, spezzati o affamati dall’altro. Blindata al sicuro nella sua fortezza, la persona si ripara dalle difficoltà che non riesce ad affrontare, costringendosi a guardare dal buco di una serratura il mondo e la vita che scorrono: un mondo e una vita da cui si è esclusa per non soccombere ma che in realtà desidera fortemente. 

“La persona che un giorno ha deciso di diventare anoressica è come se avesse scelto di andare a piantare una bandiera sulla montagna più alta del mondo per dimostrare a sé stessa e agli altri che lei è capace di portare al termine un progetto. Dimostrare che lei è capace di non avere fame, freddo, bisogno e desiderio e ciò la spinge a salire sempre più in alto…” 
( Fame d’amore. Donne oltre l’anoressia e la bulimia, De Clerq, 2010)

Come autocura dal timore dell’altro, l’anoressia si configura inoltre come strategia per differenziarsi e separarsi dalla presenza di un altro primordiale che nella propria vita è stato troppo presente o troppo assente. Un modo dunque per ricostruire un’identità minacciata dalla presenza di un qualcun altro che non ha permesso alla persona di essere o di diventare quel che si è come accade per esempio alla storia di F.

La storia di F.
 Quando F. arriva al consultorio pediatrico ha trentaquattro anni. La signora è madre di una bambina di 1 anno ma nulla del suo corpo, dei suoi gesti e delle sue parole fanno pensare alla presenza di una donna adulta. Giunge da me in consultazione a seguito della segnalazione fatta delle infermiere che la seguono nella fase di allattamento avendo notato degli inusuali atteggiamenti scontrosi, un tono dell’umore depresso ed un corpo eccessivamente longilineo. Durante il primo colloquio la signora non mi guarda mai negli occhi, parla pochissimo e ribadisce con tono ostinato e rabbioso di essere stata indirizzata da me dalle infermiere ma di non aver “bisogno assolutamente di niente”. Per tutta la seduta, intervallata da lunghi silenzi, F. rimase irrigidita e paralizzata sulla punta della sedia senza mai appoggiarsi sullo schienale. Da subito mi senti aggredita dai suoi gesti, dalle sue reticenze e dal suo modo inconsapevole di mettere distanze. Dopo 3 settimane dal nostro primo incontro e due colloqui saltati, F. mi chiese di rivederci. Iniziò da allora a riportarmi con non poche resistenze e discorsi impostati e controllanti frammenti della sua storia e dei suoi legami.
 F. è un insegnante di musica. Per tutta la vita ha suonato il violino, strumento che ama e detesta al tempo stesso. Il progetto di vita di F., oltre a quello anoressico, sintomo manifestato in lieve gravità durante la fase adolescenziale, era quello di realizzare le speranze della madre casalinga. Donna che al contrario non era riuscita a realizzare il suo sogno e aveva investito tutta sé stessa nel suo ruolo di madre. F. era stata una bambina brava e giudiziosa, si era adattata alle scelte della madre senza protestare, senza mai avere il coraggio di esprimere i suoi desideri e trovare il coraggio di dirle che a casa sua, ubicata in una periferia isolata dal centro urbano, si sentiva sola e non ci voleva più stare. Il padre, un uomo immerso nel suo lavoro e completamente assente dalla vita familiare richiedeva solo prestazioni mostrando affetto e approvazione solo quando F. dava il meglio di sé producendo e funzionando alla perfezione. Durante l’adolescenza e la prima giovinezza F. iniziò a saltare i pasti senza mai raggiungere quadri clinici allarmanti e a cimentarsi in una serie di relazioni sessuali brevi, scostanti e infelici. Aveva l’impressione di essere sempre usata e di essere solo un oggetto nelle mani degli uomini a cui si affidava. Nonostante le continue delusioni, sentiva di non potersi sottrarre ai bisogni dell’altro, di essere costretta a darsi in pasto all’altro, allo stesso modo in cui aveva sentito di non potersi sottrarre alle aspettative materne o a quelle paterne che come i tanti uomini incontrati era stata una persona assente, fredda e anaffettiva. Durante quegli anni F. aveva pian piano smantellato dentro di sé l’ideale dell’amore e delle relazioni intime, svalutando il proprio sé, il proprio corpo e la propria persona. Se le sue relazioni terminavano ed erano inconcludenti non era mai per colpa delle persone che incontrava o delle sue difficoltà ad aprirsi e a deporre fiducia in qualcun altro. La responsabilità era sempre sua, per il suo non essere mai all’ altezza delle persone che incontrava. Era per lei impossibile prendere in considerazione altre prospettive e considerare che anche le sue barriere e tutte le sue precedenti esperienze relazionali non le permettessero di farsi penetrare dall’altro.
Al momento del consulto F. vive una relazione sentimentale con R., padre della sua bambina, che non le garantisce una presenza e un supporto emotivo stabile. L’uomo, pare una reincarnazione della sua figura paterna, non solo per le caratteristiche del suo ruolo di insegnante, ma anche per alcuni tratti ben distinti della sua personalità come per esempio i repentini e furiosi scoppi d’ira, il suo perfezionismo ed il suo essere una persona rigida e anaffettiva. Le esplosioni di ira riportate dal compagno e la sua presenza affettiva scostante sembrano non allarmarla particolarmente. F. pare abituata a quel modello relazionale perché per lei quella è stata la norma a cui si è adeguata sin da bambina. Come sua madre F. si è legata ad un uomo simile a suo padre e si è adattata ad un rapporto di coppia insoddisfacente. Le uniche preoccupazioni da lei riportate durante i nostri consulti erano quelle di non riuscire ad assecondare le aspettative sessuali del suo compagno che la rimprovera di essere fredda e di non lasciarsi andare come vorrebbe. Anche in questo caso è il suo corpo, unico a parlarle in modo autentico delle sue ferite, a chiedere ad F. di porre nel rapporto sessuale un freno all’altro, le chiede di proteggersi da un qualcosa di minaccioso in cui ella stessa teme ancora di addentrarsi. Senza la fiducia e la sicurezza nei confronti dell’altro è difficile consentire l’apertura a un rapporto sessuale e al piacere che questo comporta. Se non ci si sente al sicuro, sia con sé stessi sia con gli altri, l’inibizione sessuale potrebbe diventare un potenziale, se non probabilissimo, esito. La relazione, il piacere sessuale e l’orgasmo richiedono infatti un alto livello di fiducia verso il partner, in modo tale da potersi lasciare andare, perdendo il controllo di sé e affidandosi per qualche istante completamente nelle mani dell’altro.
Dei suoi racconti mi colpisce inoltre la generalità con la quale descrive il compagno, la difficoltà di individuarlo nei dettagli e di chiamarlo per nome. La donna pare dunque incapace di incontralo anche nei suoi tratti, nella sua indole, oltre che nel suo corpo. Ancorata al suo egocentrismo, F.  sembra ancora non essere in grado di fare spazio dentro di sé alla specificità e all’individualità dell’altro.

“Non puoi incontrare l’Altro senza averlo prima personificato. Persona è l’armonizzazione dell’individualità con l’universalità”
(Se questo è un altro, Grandi, 2019)

Avendo accolto la donna al consultorio e non in uno spazio psicoterapeutico più idoneo al tipo di dolore riportato, i nostri colloqui non hanno realmente permesso ad F. di lavorare in profondità su di sé. I nostri brevi incontri hanno però concesso ad F. di provare a domandare a qualcun altro la possibilità di concedersi un ascolto. Di risperimentare la possibilità di deporre in qualcun altro dolori e sofferenze mute che in quella stanza potevano essere invece nuovamente dette e ascoltate. Occorrerà ancora molto tempo e un lungo percorso prima che F. impari davvero a fidarsi di sé stessa e degli altri. Il sintomo anoressico è la spia di un disagio relazionale antico e anche quando il suo sintomo sembra essersi affievolito a distanza di anni, se non adeguatamente trattato potrebbe continuare a rivivere, come nel caso di F, nelle distanze e nelle ostilità riposte sugli altri e nella propensione a farsi toccare solo da chi non ci guarda mai davvero come vorremmo. Per guarire del tutto, F. dovrà allora riscoprire la possibilità di amare e di essere amata in modo diverso da quel che succedeva nella sua famiglia. Dovrà trovare una relazione autentica e un esperto che non si lasci fuorviare da ciò che lei stessa rende così manifesto: il sintomo e l’inconsistenza delle sue carni, ma che sia davvero disposta a cogliere dentro di sé, dopo averlo dimorato, ciò che il sintomo vuole occultare e surrogare: una fame di relazioni autentiche, fame di esperienze, e di una vita più piena e ricca di significato.

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